Ma il guaio di SPLENDOR è proprio in questo suo lato celebrativo; di una celebrazione che, forse oltre le intenzioni dell'autore è risultata essere esclusivamente funebre. Tutto, in questo film, dall'interpretazione di un Mastroianni allo sfascio, alla pigra esposizione delle sequenze cinematografiche d'archivio, allo schematico alternarsi del bianco e nero col colore che dovrebbe scandire il trascorrere del tempo, concorre a creare un'impressione di nostalgia. Ma di nostalgia sterile e senile.

La morte della sala cinematografica di SPLENDOR è quella di un monumento, di un mucchio di pietre del quale importa probabilmente (soprattutto al pubblico di quindici anni che le statistiche assegnano alle sale dei nostri tempi) poco o niente. La morte di un'altra sala, quella del film di Tornatore NUOVO CINEMA PARADISO al quale è difficile non riferirsi parlando di SPLENDOR, può assumere invece altri significati: legata com'è ad una storia di un individuo, di un villaggio, di tutta una condizione sociale e geografica come quella meridionale.

La differenza tra i due film sta proprio in quel modo di guardarsi indietro: per capire, e per cercare d'intervenire, come fa il trentenne Tornatore. O per limitarsi a rimpiangere, come fa il sessantenne Scola: che, esattamente come il cinema, non è di certo morto. E che aspettiamo alla prossima proiezione, naturalmente in sala.